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Contest Letterario: II Classificato
Titolo del racconto: “Fuori dal guscio”
Autore: Silvia Privitera
Biografia: Silvia Privitera, 34 anni. Archeologa, interprete, guida turistica, insegnante… e mamma.
Ho sempre sentito il mare come un richiamo irresistibile. Dalle onde che eterne vagano tra un mondo e l’altro è scaturito il mio desiderio di conoscenza, che mi ha portato a studiare l’arte, le lingue e le culture dei principali popoli che nei millenni si sono affacciati sul Mediterraneo.
Ne ho fatto la mia vita.
Amo assaporare le parole, ma non avevo mai pensato di scrivere… questo è il primo racconto in cui mi cimento: è nuovamente il mare a trascinarmi in una nuova avventura.
Quando si estrae il murice dalla sua conchiglia, bisogna prestare una meticolosa attenzione a non infrangere anzitempo la sua vena candida. Esili dita carpiscono il mollusco dalla sua madreperlacea dimora, poi con una pietra tagliente macellano quegli esserini minuscoli: nella profonda vasca di tintura il sangue e le carni si confondono in un’informe poltiglia, ed è solo allora che quell’unica goccia di prezioso liquido che racchiudono, l’essenza più pregiata che la nostra gente sa produrre, può vedere finalmente la luce, ed esplodere nelle sue fragorose tonalità.
Il mondo la chiama porpora.
Lavoro nelle tintorie sin da quando ho memoria della mia vita. Ophir, rispettabile mercante di Tiro, mi accolse nove anni or sono a lavorare per lui, ma anche ora che sto per affacciarmi all’età adulta rimango ogni giorno infantilmente estasiato nell’ammirare la trasformazione da questi piccoli molluschi insignificanti fino alle vesti per i più ricchi e nobili signori del mondo conosciuto.
La loro morte è la nostra vita, famiglie intere prosperano su questo commercio. Anche la mia, quando esisteva. Ma ora che sono solo al mondo, condannato a spendere ogni giorno presso questa vasca di colorazione, non riesco più a farmi sparire dalle mani il loro sanguigno colore.
Se vado al mercato o presso il tempio, i passanti mi scrutano con circospezione, mi considerano un protetto degli dei, sussurrando tra loro ch’io ne porto il segno… ma che protezione ho mai avuto? Orfano, escluso da ogni compagnia per queste mie mani vermiglie, ho trovato una casa solo grazie alla magnanimità dell’onesto Ophir, che non ha avuto cuore di lasciarmi alla fame.
Ah, dimenticavo: mi chiamo Hiram.
Quel giorno il potente mercante Aduni-Ba’al giunse nella nostra manifattura piuttosto tardi. Bisognava portare un carico delle nostre pregiate stoffe presso un emporio greco nella lontana Creta, e il trasporto fino a bordo nave avrebbe richiesto parecchio tempo; ma costui si presentò da noi verso l’imbrunire, quando il sole, già stanco, cominciava a volgere le sue attenzioni verso il mare.
“Mi serve un garzone che mi accompagni per il viaggio: il mio si è azzoppato e non è più buono a nulla.”
Questa pretesa colse alla sprovvista il buon Ophir, ma non poteva certo rifiutare le richieste del suo eccellente collega. Visto che a quell’ora tutti gli altri lavoranti erano già rincasati dalle loro famiglie, la scelta cadde su di me.
“Ma certamente! Prendi Hiram: è un bravo ragazzo, e conosce la porpora meglio di chiunque altro. Guardagli le mani: non riesce più a lavarsene via il colore, dato che passa tutto il tempo ad armeggiare nella vasca tintòria.”
Non potei fare a meno di essere lusingato per quelle parole, ma una vaga inquietudine si impadronì di me, accompagnandomi per le ore successive sulla strada verso il porto.
Per tutta la notte non riuscii a prendere sonno. L’emozione era troppo forte, e restai a vagare come un fantasma tra le banchine addormentate. La luna si rifletteva sognante sulle acque perfette della costa fenicia, attirandomi verso di sé con la promessa di avventura e ricchezza nel rifrangersi scintillante delle sue mille pagliuzze argentate.
La marea silenziosa lambiva con insistente dolcezza le mie caviglie minute che ciondolavano dal pontile: era questo l’unico mare che conoscevo, non mi ero mai soffermato ad osservarlo vista la sua naturale, quotidiana presenza. E ora quelle onde oscure sembravano chiamarmi, attirarmi a sé: mi sentivo ipnotizzato.
Ma come avrei potuto lasciare Tiro? In quella città ero nato, in quella città adagiata sulla riva avevo vissuto per quindici anni. Il mare era la nostra fonte di vita, i fiorenti commerci ci sostentavano, ma io non avevo mai solcato le sue acque capricciose, e la cosa mi affascinava e mi terrorizzava allo stesso tempo.
Quando i primi pescherecci rientrarono in porto, accompagnati dal festoso stridìo di decine di gabbiani, i raggi dorati del sole nascente imporporarono le acque in un tripudio di riflessi sanguigni. Il mare divenne un immenso tessuto di porpora ai miei occhi, e seppi che dovevo partire.
Fui tra i primi a giungere alla nave, che superba attendeva. Gli uomini stavano iniziando a collocare nella stiva il prezioso carico, le centinaia di merci che avremmo rivenduto a destinazione.
Feci un profondo respiro, e, come mi era stato ordinato, mi presentai al capitano Melqart-Ahu.
Forse fu per il mio sguardo timido, colmo di timore reverenziale, che costui mi prese subito in simpatia e mi pose sotto la sua ala protettrice; mentre non posso dire lo stesso degli altri membri dell’equipaggio, alcuni dei quali mi rivolsero sguardi torvi, e biechi gesti scaramantici in direzione delle mie mani color del fuoco, che tentavo invano di nascondere.
Salii a bordo di quella nave perfetta.
Lunga oltre 25 metri, e larga poco più di un quinto, porgeva al molo la sua poppa arcuata: questa, decorata con un motivo a spirale, si distingueva dalla prua solo per l’assenza dei due grandi occhi apotropaici dipinti che avrebbero protetto la nave durante la navigazione, guidandola col loro sguardo magico attraverso i flutti.
Nelle sue perfette fiancate in legno di cedro, una ventina di rematori nerboruti stava già dispiegando la batteria di remi negli scalmi, pronti a prender posto ad un ordine del loro capitano. Un unico albero, situato lievemente verso poppa, reggeva un’immensa vela rettangolare, che ancora si trovava strettamente legata al pennone.
Sotto lo sguardo vigile di Aduni-Ba’al e del capitano, gli uomini terminarono di ammassare il ricco carico nella stiva: notai che gli astuti marinai seguivano una ferrea logica di priorità, celando la parte più preziosa del carico – le stoffe che io stesso avevo tinto della nobile porpora – in fondo, dietro altri oggetti di più scarso valore commerciale.
Poi, finalmente, levammo l’ancora.
Il cuore mi batteva all’impazzata mentre la nave mollava gli ormeggi ed elegante come una sirena cominciava il suo affascinante viaggio. Il rimbombo del tamburo del capovoga assecondava i miei battiti, accompagnando i remi che si tuffavano con veemenza tra i flutti.
La prima cosa che ricordo, quando lasciammo il sicuro porto di Tiro per buttarci al largo, sono le sferzate violente delle folate sul viso, che impregnavano ogni cosa dell’inebriante odore di salsedine.
Procedevamo a vista, seguendo la costa, navigando solo durante il giorno e pianificando di giungere allo scalo successivo appena prima del tramonto, per poter passare al sicuro le notti e rifornirci via via di viveri e altri generi necessari.
Una nave da trasporto come la nostra poteva percorrere la tratta fino a Creta in breve tempo, ma il mare desiderava tenderci i suoi sottili tranelli: per sei giorni la navigazione procedette tranquilla, finché al mezzodì del successivo, quando stavamo già oltrepassando Cipro, avvistammo una vela all’orizzonte.
Vidi apparire il terrore sui volti di quegli esperti marinai, e Aduni-Ba’al che balbettava terreo frasi sconnesse, ormai sicuro di perdere il suo prezioso carico e fors’anche la vita: tutti avevano riconosciuto, nel tetro colore del legno che muoveva veloce verso di noi, i temuti pirati tirreni.
Non avevamo scampo: la loro hemiolia dai bei fianchi torniti, con una doppia fila di remi, era ben più snella ed agile della nostra tozza nave mercantile.
Mi avvicinai d’istinto al capitano, che non lasciai per tutti gli avvenimenti successivi: mi rincuorava la sua vicinanza, in quella nostra inutile fuga tra i flutti.
Lo sentii mormorare che dovevano essere ben disperati per spingersi così vicini alla costa, ma l’assenza di approdi in quella tratta di mare rendeva la loro caccia una vittoria certa.
Infatti, lanciati a folle velocità all’inseguimento della nostra succulenta imbarcazione, i pirati cercavano di tagliarci la possibilità di rifugiarci presso un promontorio del litorale.
I nostri uomini manovravano la vela con somma perizia, imprimendo alla nave forti sbalzi ad ogni virata: tentammo l’impossibile sfruttando il vento e la forza di quaranta braccia poste ai remi per far volare il nostro legno sulle acque, ma l’hemiolia guadagnava terreno.
Su ordine di Melqart-Ahu, e con il rischio anche di spezzare il timone, ci gettammo nell’estremo tentativo di farci affiancare dalla nave nemica, in modo da non essere a portata del loro rostro acuminato ed evitare di farci speronare la fiancata. Con una rapida manovra, virammo repentinamente mentre i rematori invertivano la vogata. Era una resa, ma che preservava almeno la nostra imbarcazione. Il capitano avrebbe preferito morire piuttosto che vedere la sua amata nave sventrata.
I pirati capirono la nostra intenzione di lasciarci abbordare e ci lasciarono fare: sarebbe stato infatti più semplice depredarci, e con una netta riduzione del rischio di perdite umane. Ci scivolarono vicino, affiancandoci a babordo. Rapidi come fulmini gettarono rampini e passerelle armate di uncini, e si gettarono come un sol uomo su di noi mentre i due legni, legati fra loro, cominciavano a danzare insieme cullati dalle onde.
Grosse lacrime rigavano le guance cadenti di Aduni-Ba’al mentre i rozzi predoni arraffavano quanto più possibile dalla nostra nave, sotto lo sguardo impotente dell’equipaggio fenicio.
Anfore di vino, statuette in terracotta e oro delle maggiori divinità orientali, amuleti in vetro, armi di varia foggia in resistentissimo bronzo cananaico, gioielli in ambra e avorio: buona parte delle nostre preziose merci finì in breve tempo nella stretta stiva dei banditi.
Rannicchiato sotto la murata di tribordo, aspettavo con ansia il momento in cui le ultime merci, le pregiate balle di stoffa purpurea che i nostri uomini avevano celato in fondo alla stiva al momento dell’imbarco, avrebbero attraversato la tolda per raggiungere il ponte nemico, sancendo così la fine del saccheggio. Ma non arrivarono.
Avendo ormai colmato l’hemiolia ben oltre la sua capacità di carico, e vedendo pericolosamente abbassarsi la linea di galleggiamento, il capitano pirata ordinò di cessare la razzia.
La tensione si fece sempre più palpabile mentre attendevamo la nostra sorte, che il capo dei ladroni non tardò a comunicarci: impossibile appesantire ulteriormente la nave per imbarcare prigionieri da rivendere come schiavi, e inutile trainare la nostra nave oneraria, troppo tozza per poter essere usata nelle loro scorrerie; pertanto la loro barbara decisione fu di dar fuoco alla nostra imbarcazione, lasciandoci crudelmente scegliere il tipo di morte che più ci aggradasse.
Ma Melqart-Ahu, astuto marinaio fenicio uso a contrattazioni e sotterfugi, non si diede per vinto.
Senza farsi notare, chinò lievemente il capo in direzione del mio sguardo atterrito, sussurrandomi:”Adesso tocca a te, ragazzo.”
Lì per lì non capii, ma poco dopo la sua intenzione mi risultò chiarissima: il capitano tentava il tutto per tutto per salvarci, e reggergli il gioco era la nostra unica possibilità di sopravvivere.
In tono calmo e pacato, ma con un ghigno diabolico sul volto, cominciò a proclamare, indicandomi agli ignoranti banditi: “Oh voi, stolti! Il fuoco che appiccherete alla nostra nave sarà la più superba delle nostre vendette! Sciocchi, sacrileghi! Non vedete voi dunque il semidio che abbiamo a bordo? Egli era stato ucciso, ed è tornato dagli inferi! Non vedete voi dunque il segno di fuoco che porta sulle mani? È un prescelto dagli dei, Ba’al-Moloch in persona gli ha dato questo potere! Se incendiate la nave egli non morrà, ma vi perseguiterà in eterno, aggancerà la vostra chiglia e trascinerà la vostra nave negli abissi più profondi dell’oceano!”
Con il coraggio che incute la paura, afferrai al volo le sue intenzioni, e con gesto teatrale levai imperiosamente in alto le mie mani color del sangue purpureo di migliaia di murici.
Mossi un passo verso di loro, e con voce resa stentorea dalla disperazione, esclamai:”Che la maledizione di Ba’al-Moloch cada su di voi se osate sfiorarci!”
La mia interpretazione era poco credibile, gocce di freddo sudore salmastro mi imperlavano la fronte, ma la superstizione rese i pirati ammutoliti per un momento, incerti sul da farsi.
E questo momento fu sufficiente per la nostra salvezza: indietreggiando di qualche passo, uno di costoro si trovò di colpo addossato alla murata, e inciampò stupito aggrappandosi in malo modo a un rampino per non perdere l’equilibrio. Dal petto gli uscì un urlo straziante, disumano, mentre l’uncino gli si configgeva nelle carni squarciandole orrendamente. Nella confusione che ne seguì, parve ovvio a tutti come io fossi un dio che poteva decidere della loro morte anche solo levando i palmi, le grida di panico sovrastarono i gemiti del ferito, e i pirati come una fiumana si riversarono a bordo dell’hemiolia. Velocemente trassero i ponti uncinati e tagliarono i rampini, ansiosi di darsi alla fuga per scampare dalla vendetta di quel dio che avevano offeso.
Mentre i predoni si allontanavano rapidamente, il nostro equipaggio gioiva incredulo per il pericolo scampato, ma ci rendemmo subito conto che Aduni-Ba’al e Melqart-Ahu stavano parlottando tra loro. Benché la nave e l’equipaggio fossero salvi, la perdita di una fetta di mercanzia così ingente era una catastrofe, rendendo il viaggio una perdita economica disastrosa. Capitano e committente stabilirono pertanto di comune accordo di tentare il tutto per tutto e cambiare rotta: la nuova destinazione sarebbe stata il delta egiziano, dove la rarità delle nostre stoffe di porpora era tale da permetterne la vendita ad un prezzo più che doppio che nei porti cretesi o ciprioti.
Questa notizia mi paralizzò. Era un progetto insensato. I marinai tutti restarono increduli.
Usi ad anni di navigazione, alcuni risposero con entusiasmo al viaggio formidabile che ci si prospettava davanti: erano spaventati dal navigare nel vasto mare aperto, ma confidavano nella protezione degli dei. Altri, però, non accettarono questa decisione di buon grado.
Quella sera facemmo l’ultimo scalo prima della grande traversata, per rifornirci il più possibile di viveri; nessuno di noi riuscì a chiudere occhio mentre le cupe onde si frangevano con maligna insistenza sulla fiancata del nostro legno, presagio di foschi avvenimenti.
Quando il sole infine si levò, levammo l’ancora e ci buttammo in mare aperto.
Acqua.
Solo acqua.
Acqua a perdita d’occhio.
Acqua acqua acqua.
Nato e cresciuto in una città portuale, consideravo il mare un necessario proseguimento della terra: ma dov’era ora la terra? Non vedere più la costa mi paralizzava, mi sentivo prigioniero di quell’infinita distesa azzurra, credevo d’impazzire, spingevo il mio sguardo febbrile oltre l’orizzonte anelando ad un qualunque punto di riferimento, ma la risposta era solo acqua, solo quella maledetta acqua salata intorno a noi.
Di giorno il silenzio della bonaccia, e il sole, inesorabile, che rendeva i flutti delle sottili lame acuminate che accecavano i miei occhi, mentre l’arsura mi tagliava le labbra come mille coltelli piantati nella carne.
E di notte… Non so se avete mai passato una notte in mare, ma quello che mi faceva più paura era l’assenza totale di silenzio: il frastuono dei marosi che nervosamente percuotevano le fiancate, gli scricchiolii sinistri del fasciame, il lugubre tum-tum-tum-tum del tamburo che dava il tempo ai rematori di turno mentre proseguivamo imperterriti la nostra navigazione verso l’ignoto.
L’incertezza era palpabile, nessuno fiatava se non per gli ordini strettamente necessari, i viveri calavano a vista d’occhio, e anche gli uomini addetti alle vele si prestavano allo sfiancante lavoro di remo pur di raggiungere il prima possibile un porto sicuro.
Marinai avvezzi ad anni di navigazione erano colti dall’inquietudine: la presenza rassicurante della costa è ben diversa dal vuoto assoluto di punti di riferimento, di appigli, che si percepiva nel mezzo del mare.
Sfruttavamo le stelle, che ci guidassero nella nostra nuova rotta, mentre i flutti si frangevano sulla nave in una monotona rincorsa.
Persi il conto dei giorni di navigazione. I morsi della fame cominciarono a farsi sentire, e il malcontento non tardò ad esplodere violentemente. Ikkil, Reshef e Adirtu, tre dei marinai che consideravo più esperti, presero segretamente la decisione di ammutinarsi: non confidando più nella nostra buona stella fenicia, che ci guida da secoli alla scoperta di nuove rotte fin oltre le colonne d’Ercole, maturarono la folle idea di prendere il comando della nave e tornare indietro.
Il pretesto fu la distribuzione del vitto: razioni troppo piccole, il mare non ci aiutava con una buona pesca, e in un’esplosione di collera non più repressa i tre si avventarono sul nostro cuoco puntandogli i coltelli alla gola, reclamando cibo e acqua.
Nella confusione che seguì, si faticò a mantenere la calma, ed era proprio quello che gli ammutinati si aspettavano, lanciandosi contro Aduni-Ba’al e me, i mercanti ritenuti responsabili del cambiamento di rotta.
Mi salvai grazie alla mia agilità slanciandomi verso il boccaporto, dove il capitano si frappose fra me e i miei assassini.
Furono invece proprio i magnificenti abiti di Aduni-Ba’al a decretarne la fine: la sua maestosa figura inciampò rovinosamente mentre tentava di sfuggire alle lame degli assassini, restando alla loro spietata mercé. La porpora della veste si chiazzò di ombre violacee nei punti in cui i pugnali affondarono nelle carni, il suo corpo si accasciò senza vita, senza quasi lottare, e la sua possente esistenza di illustre mercante si chiuse miseramente in mare, per mano di quegli indegni traditori.
Ma questi non ebbero tempo di gioire del loro immondo gesto: il capitano e i leali marinai, disgustati dalla viltà immotivata di tale gesto, si gettarono su di loro: nella mischia che seguì, sudore e sangue si unirono agli spruzzi salmastri che oltrepassavano la murata, quasi il mare volesse giocare scherzoso partecipando anche lui alla lotta. Infine i tre furono disarmati e ridotti all’impotenza: Reshef presentava un orrendo squarcio sul fianco, che poche ore dopo pose fine al suo destino.
Mestamente, Melqart-Ahu ordinò di lavare con l’acqua del mare il cadavere di Aduni-Ba’al, che affidammo poi ai flutti insieme al corpo del suo carnefice.
Ikkil e Adirtu, invece, vennero legati e buttati in malo modo in un cantuccio verso prua, tenuti d’occhio dallo sguardo vigile di tutti gli altri marinai. Lo scontento serpeggiava ancora, ma non tanto da ridurre gli onesti marinai fenici al rango di assassini, soprattutto dopo la drammaticità del gesto avvenuto e la ferma reazione del capitano. L’odio della ciurma nei miei confronti non si era ancora completamente placato, finché il capitano non rese chiaro all’equipaggio che io, il ragazzo dalle mani di porpora, ero l’unico a bordo in grado di vendere il nostro pregiatissimo carico ad un giusto prezzo, consentendo a tutti di arricchirsi.
Dentro di me non credevo alle sue parole, sebbene lo ringraziassi per la sua paterna protezione.
Ma Melqart-Ahu era sincero, e me ne diede la prova quella sera stessa, quando mi propose di mettermi in società con lui.
“Cosa ti spinge, ragazzo, a tornartene a Tiro? Hai forse una famiglia che ti aspetta, o qualche buon amico cui raccontare di questo viaggio? Se Aduni-Ba’al diceva il vero – e non ho motivo di dubitarne – le stoffe che trasportiamo devono valere una fortuna! A me e ai miei uomini spetta una grossa fetta, ma senza di te non sappiamo come venderle, quindi verrai pagato per il tuo lavoro. E con quel gruzzolo, perché non ti stabilisci dove approderemo? Quelle conchiglie tanto preziose abbondano su tutte le coste, ma in questa parte di mare ancora non ne conoscono il segreto. Potresti aprire una tintoria tua, e io farei volentieri affari con te!”
Lo guardai senza sapere cosa rispondere. Ritenevo che non saremmo mai arrivati a destinazione; l’equipaggio borbottava sorde imprecazioni al mio indirizzo maledicendo le mie mani cremisi, e intanto il capitano dischiudeva davanti ai miei occhi un mondo incantato, fatto di libertà e ricchezza.
Ma assieme al borbottio degli uomini, ecco levarsi forte anche il borbottio del mare: la superficie delle acque, calma fino a quel momento, cominciò tutt’a un tratto a ribollire, mentre un vento impetuoso si insinuava aizzando le onde.
I marosi aumentarono rapidamente di intensità, infrangendosi sempre più insistentemente sulle murate della nave e soffocando la tolda con violenza inaudita, e il fasciame prese a rispondere con strepiti agghiaccianti all’attacco di questi scrosci infernali.
Con grande sforzo, la vela venne rapidamente ammainata affinché non si strappasse; gli uomini tentavano faticosamente di conservare le posizioni ai remi, ma con i vortici d’acqua che invadevano i ponti era quasi impossibile mantenersi agli scalmi.
Le raffiche di vento impregnavano le narici di mille odori salmastri, che arditamente si mescolavano al profumo del legno di cedro del fasciame e all’odore della nostra paura; ci sferzavano la gola soffocandoci, seguite da ondate alte più di un uomo che superavano le murate per riversarsi sul fragile legno in balia dei cavalloni, impotente, sballottato violentemente dal mare in burrasca.
La tempesta si scatenava sempre più rabbiosa su di noi, e sulle urla terrorizzate dei rematori piovevano bestemmie e frustate: mantenere la corsa era la nostra unica possibilità di salvezza, per non abbandonarci completamente alla furia delle onde.
Non avevo mai visto niente del genere: la violenza che una mareggiata poteva sviluppare sul litorale contro le nostre misere case era ben poca cosa rispetto alla sensazione di nullità del ritrovarsi nel cuore della burrasca, spersi a centinaia di miglia dalla riva, da qualsiasi altro essere umano, dalla civiltà, da qualsiasi punto di riferimento.
Mi sentivo indifeso come il piccolo murice, strappato dal suo rifugio di madreperla, buttato senza pietà nella vasca di tintura per essere maciullato dall’impietosa mano del bambino-carnefice.
Lampi squarciavano il cielo, lasciandomi sbigottito dei fulgidi riflessi iridescenti che si rispecchiavano, ingigantiti, su tutte le onde che si lanciavano contro di noi.
Il formidabile clangore dei tuoni mi lacerava i timpani, mentre fiotti smisurati provenivano dal mare furibondo per agguantarmi e trascinarmi nei suoi abissi.
Giuro sui Grandi Dei che vidi con questi miei occhi le possenti spire del mostro marino che incitava la tempesta: come lingue di fuoco oscuro fuoriuscivano dalle onde per rapirmi e condurmi nel profondo dell’oceano! Forse fu il capitano a salvarmi: sentii una cima stringersi intorno alla mia caviglia proprio quando, ormai esausto dalla lotta contro i flutti, stavo per cedere e lasciarmi travolgere nelle impietose fauci del mare.
Incrociai lo sguardo dei due ammutinati, che pazzi di terrore cercavano di divincolarsi dalle cime che li tenevano prigionieri, mentre una fiumana salmastra lambiva i loro corpi immobilizzati. Con uno sforzo supremo strisciai verso di loro per aiutarli a sciogliersi: il loro terrore era lo stesso che stavo provando io, e per quanto si fossero promossi amministratori di morte non potevo permettere che facessero quella fine terribile.
Non so quanto tempo restammo ancora alla mercé del vento e del mare, che sfidavano le loro forze immortali sulla nostra effimera imbarcazione.
Ma ecco che finalmente, lentamente, le raffiche diminuirono; un furioso acquazzone ne spezzò l’intensità, placando le inesorabili onde del mare e zittendo il turbinio delle ventate contro di noi.
Inebetiti ci guardammo, senza osare parlare per tema di svegliarci da un sogno. Ammutoliti volgemmo intorno lo sguardo per controllare se eravamo ancora tutti presenti, vivi, salvi!
Poi lentamente attorno a noi si levò uno degli spettacoli più belli cui sia dato di assistere ad un essere vivente: i riverberi della tempesta restarono sospesi sul mare, nell’ombra cupa e strana della quiete che segue la burrasca, aprendosi ai nostri occhi in colori violacei squarciati da un’immensa esplosione di luce.
Mi sentii rigenerato da tanta bellezza, dall’infinita potenza della natura e di quel mare immortale che ci circondava. Che si era divertito con noi, ma poi di noi aveva avuto pietà, lasciandoci liberi di proseguire il cammino.
Mi riportò alla realtà l’ordine secco di Melqart-Ahu che imperioso comandava ai suoi uomini di perlustrare la nave per appurare eventuali danni. Fortunatamente la chiglia aveva resistito, ma il timone era gravemente lesionato, quindi gli esperti carpentieri si misero subito alacremente all’opera per rimetterlo in condizione di navigare.
“Tu controlla la nostra merce, ragazzo!”
Mi voltai stremato verso il boccaporto, e mentre mi apprestavo a scendere per ispezionare il carico di porpore vidi due ombre gettarsi ai miei piedi: Ikkil e Adirtu, che avevo aiutato a liberarsi durante la tempesta salvandoli da morte certa, mi chiedevano perdono per aver in precedenza attentato alla mia vita, e si dichiaravano miei schiavi e debitori.
Accettai di buon grado il loro omaggio, pensando divertito che se mai fossimo riusciti ad arrivare a destinazione avrei potuto impiegarli nella tintoria che ipotizzava Melqart-Ahu; poi con le mie mani di sangue aprii timoroso il boccaporto per scendere nella stiva.
I tessuti erano fradici, come il resto della nave, ma risposi spavaldo allo sguardo disperatamente deluso di quanti mi avevano accompagnato. Allora era vero che io solo conoscevo i segreti di quella preziosa tintura, che si fissa alle stoffe con miscele di sostanze diversificate ma sempre inesorabilmente disciolte in acqua di mare! La tempesta, inzuppando le nostre balle di tela purpurea, non aveva fatto altro che fissare ulteriormente il colore, rendendolo ancora più pregiato.
La nostra navigazione riprese senza ulteriori incidenti. Per altri due giorni navigammo, sempre più spossati, nutrendoci del solo pesce che riuscivamo a pescare, e tentando di dissetarci alla bell’e meglio con acqua marina, dissalata filtrandola attraverso i nostri stracci salmastri.
La fame era ormai insopportabile, la sete ci consumava; finché di colpo, increduli, avvistammo la terraferma. Melqart-Ahu non si era sbagliato: la terra che si apriva di fronte a noi era la foce di uno dei rami più occidentali del delta del Nilo.
Quando finalmente giungemmo a destinazione, eravamo sfiniti. Avvistato il porto, ci dirigemmo subito verso il suo ingresso, affiancandoci ad altre imbarcazioni che festosamente richiamarono alla mente la vita affaccendata della mia città natale, che ormai mi pareva di aver lasciato da un secolo.
Questa nuova città che si apriva dinanzi a noi mi ammaliava. Forse davvero mi sarei stabilito qui dopo questa avventurosa traversata.
Mentre la nave, finalmente prossima alla costa, si insinuava nell’insenatura del porto, mi voltai d’istinto, rivolgendo un ultimo sguardo alla vastità del mare.
Ero affascinato e sconvolto da come si fosse disvelato fragorosamente a me in tutta la sua possenza, e mi resi conto improvvisamente di come lo avessi assaporato con tutto me stesso: di come mi avesse inebriato, e mi avesse guidato a scoprirne i suoi segreti aspetti attraverso tutti i cinque sensi.
I miei occhi si erano ubriacati delle innumerevoli sfumature delle sue onde cangianti: il turchese radioso nella bonaccia assolata, calma piatta vellutata d’olio; le tinte madreperlacee che assumeva quando il vento cominciava ad increspare le sue creste capricciose, incrinandone il buonumore; i toni verde cupo dei cavalloni che si rincorrevano agitati; il baluginante argento dei marosi spietati, mura taglienti pesanti come macini che si riversavano sulla nave.
E il prisma multicolore che si era aperto al nostro sguardo estasiato quando la tempesta si era placata, per cedere poi dolcemente il passo alle tinte che quella distesa infinita di acqua assumeva verso il tramonto: il mare appariva allora come un manto dorato, poi rapidamente volgeva al pesca, seguito da strisce vermiglie che giocavano tra i flutti, e che rapidamente lo rivestivano dei riflessi cangianti della porpora, la nostra porpora, che infine cedeva il passo al color del vino cantato da Omero, fino a spegnersi nel nero pece della notte.
Quella notte che nell’oscurità più fitta portava al mio olfatto così tanti odori inaspettati, che mi obnubilavano i sensi: avevo imparato a riconoscere il cambiamento del tempo dalla diversa intensità della salsedine nelle mie narici, e mi saziavo di coglierne le diversità.
Il mare, una distesa sconfinata di profumi… mi sembrava di conoscerli tutti, e poi di colpo il tempo virava leggermente ed ecco una nuova zaffata di aromi che mi coglieva all’improvviso. La fragranza della salsedine che ricopriva ogni poro della nostra pelle, l’odore di zolfo seguito alla tempesta, il vino rancido con cui annebbiavamo i nostri tormenti, la puzza di cibo marcio, l’eccitante aroma del pesce appena pescato e quell’invitante sentore quando poi lo cuocevamo alla griglia, il sudore dei rematori esausti, il profumo intrigante delle onde lievemente increspate alle prime luci di un’alba colma di promesse.
Allo stesso modo il mare mi aveva concesso di gustare i suoi più nascosti sapori.
Ce li aveva offerti tramite le centinaia di creature che pescavamo durante la nostra navigazione: le prelibate orate, le dolci granseole, le sogliole inacidite dal succo dei nostri cedri, le deliziose aragoste, i tonni succulenti.
Ma dopo qualche giornata sulla nave mi ero accorto di come tutto il mio palato avesse cambiato le sue percezioni. Gocce di mare penetravano ogni momento al suo interno, donandogli piccantezza; le labbra riarse parevano sale puro, nei momenti di afa il salmastro diventava quasi dolce, mentre risultava particolarmente amaro il fiotto violento che si insinuava in bocca durante la tempesta.
Degustare il mare apriva un intreccio esplosivo di sapori.
E mentre pensavo a come avessi assaporato il mare, così come ora pregustavo la nuova vita che grazie a lui mi si apriva davanti, ancora sentivo addosso i brividi che i suoi strepiti mi avevano suscitato mentre veleggiavamo tra i flutti. Gli scrosci che squassavano il legname della tolda ferendomi i timpani, le urla di rabbia del vento che si scatenava aizzando i cavalloni contro di noi, il formidabile ululato delle raffiche tra il sartiame che pareva la voce profonda del dio del mare giunta per chiamare all’Ade tutti i marinai. E poi il silenzio surreale che seguì il temporale.
Il mio udito è stato accarezzato dai suoni mutevoli dell’acqua, lo sciabordìo sulla fiancata della nave, il ritmo cadenzato dei colpi di remi che si tuffavano, il lieve fruscio pieno di mistero della notte con i suoi rumori sinistri, il parlottare delle onde che si accavallavano le une sulle altre quando la tempesta iniziava ad annunciarsi. Ma anche i versi striduli dei gabbiani, gli ordini secchi del comandante, le bestemmie dei marinai al remo e il gorgogliare del nostro ventre affamato; e le voci ardite dei cospiratori, il tossire lento del capitano sicuro di sé.
Ma solo in quel momento, pronto a rimettere piede sulla stabile terraferma, mi rendevo conto di quanto il mare mi avesse anche accolto nel suo ruvido abbraccio, donandomi sensazioni tattili mai immaginate prima.
Il corpo restituiva alla mia memoria la percezione fisica della sua costante presenza, nella perenne umidità dei panni che portavo addosso, nella cute screpolata e logorata.
Il mare lo avevo toccato, vissuto su tutta la mia pelle: le sferzate burrascose delle ondate in tempesta, le raffiche gelide di vento che impregnate di sale mi graffiavano il volto, il tocco gentile di un refolo serale, qualche schizzo dispettoso che sfuggiva ad un pesce guizzante tirato sulla tolda. Sentivo gli occhi bruciare per il salmastro che penetrava le pupille, osservavo le mani dei marinai, callose e stanche per il manovrar di remi e cime, ricoperte da una patina vischiosa per il sale e lo sporco che vi si mescolavano. Provavo ancora quel senso costante di arsura che tagliuzza le labbra come mille spilli acuminati, ma intanto mi sentivo cullato, rinfrancato dal fresco avvolgente delle onde, e dalla carezza morbida e generosa della brezza che salutava la fine del nostro viaggio.
Rivolsi anch’io il mio saluto al mare.
Questo mare che mi aveva reso uomo insegnandomi a vivere appieno, con tutti i miei sensi.
Ma già sapevo che era soltanto un arrivederci.
