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No Brilho azul do mar uma gaivota di Silvia Privitera

*Nello scintillìo azzurro del mare un gabbiano

Racconti

No Brilho azul do mar uma gaivota di Silvia Privitera

Titolo del racconto: No Brilho azul do mar uma gaivota (Nello scintillìo azzurro del mare un gabbiano)
Autore: Silvia PriviteraII classificato
Biografia: Silvia Privitera, 34 anni. Archeologa, interprete, guida turistica, insegnante… e mamma.
Ho sempre sentito il mare come un richiamo irresistibile. Dalle onde che eterne vagano tra un mondo e l’altro è scaturito il mio desiderio di conoscenza, che mi ha portato a studiare l’arte, le lingue e le culture dei principali popoli che nei millenni si sono affacciati sul Mediterraneo.
Ne ho fatto la mia vita.
Amo assaporare le parole, ma non avevo mai pensato di scrivere…


 

NO BRILHO AZUL DO MAR UMA GAIVOTA
*Nello scintillìo azzurro del mare un gabbiano

Un riverbero colpì il suo sguardo, che ammirava affascinato quello spettacolo: mai aveva visto niente di simile, una nave così imponente, alta, panciuta. Il legno traslucido delle murate rifletteva i raggi assonnati del sole d’autunno, creando nelle onde sottostanti dei giochi di colore inimmaginabili; pareva che un pittore impazzito avesse scaraventato in mare l’intera sua tavolozza, per la rabbia di non saper rappresentare un intreccio così intenso e sublime. I pennoni reggevano vele immense, arrotolate in attesa di solcare l’Oceano, e le coffe erano talmente in alto che pareva toccassero il cielo.
La caravella attendeva altezzosa, mentre centinaia di facchini, marinai e lacchè si affaccendavano per caricare casse di viveri e mercanzie all’interno della stiva, creando un formicaio umano in uno dei più grandi porti atlantici d’Europa: la foce del Douro convogliava l’economia della penisola iberica e dell’intero continente nella rotta verso le terre recentemente scoperte, e anche questa nave si apprestava al suo viaggio verso il Nuovo Mondo, per conquistare, colonizzare, razziare quante più ricchezze possibili.

João Dias Pinto aveva quattordici anni, e non sapeva cosa decidere.
Era un bel ragazzino dalla chioma fulva tagliata a spazzola, con lo sguardo limpido dall’espressione sincera, ma si trovava in un grosso pasticcio e non aveva idea di come uscirne.
Non aveva un passato: era scappato di casa diversi mesi prima, colmo di esuberanza e di aspettative per le innumerevoli strade che gli si aprivano davanti. Dalle campagne era migrato verso quell’immensa distesa azzurra il cui pensiero lo ipnotizzava, con il cuore colmo di progetti per l’avvenire, sicuro che avrebbe potuto cercare fortuna in città e conquistarsi un futuro più degno di quello che la vita gli aveva prospettato.
Chiamavano questa città O porto, per antonomasia, ed era lì che il cuore di João era catalizzato, in quell’immenso accesso fluviale all’Oceano Atlantico, crocevia di speranze e illusioni, simbolo della chiave che può aprire qualsiasi destino.
Il giorno in cui vide il mare per la prima volta gli mancò il respiro, si sentì crescere la febbre e cominciò a tremare, mentre per la commozione le gote gli si facevano violacee e una rugiada salata gli offuscava gli occhi. Si sentiva calamitato da quella formidabile distesa d’acqua, e ogni sera scendeva alle sue rive. Scopriva così nuovi paesaggi e prospettive, e si lasciava andare ai differenti scorci che cullavano i suoi sensi e lenivano le sue ferite. Il chiasso delle banchine, le rocce aguzze che proteggevano la darsena, le spiagge sornione della zona meridionale lambite dalla sughereta… Ogni angolino con la sua atmosfera poteva rispecchiare lo stato d’animo di questo giovane, che nel suo rapporto con il mare si sentiva meno solo, e più energico nel rincorrere la buona sorte.
Ma di fortuna ne aveva trovata ben poca.
Inizialmente aveva cercato di farsi conoscere, cercando dei buoni lavori presso la borghesia locale; ma ben presto si era reso conto di quanto facilmente i sogni si possano infrangere, di quanto semplice sia sfruttare chi viene da fuori e di quanto duro sia sottostare a tale ovvietà, ed aveva finito per rinunciare. E per rinunciare al mare. Si sentiva come tradito, e prese ad evitarlo per non sentirne il richiamo sulla pelle, nei capelli, nel cuore, nell’animo.
La sua famiglia si era presto dimenticata di questo figlio di troppo, ed egli aveva così preso ad ingrossare la schiera dei pezzenti, dei vagabondi, della gente che campa alla giornata intorno al porto. Senza quasi più provare emozioni, se non quella istintuale che porta a desiderare un tozzo di pane o una qualche brodaglia per riempire lo stomaco. Viveva di espedienti, come poteva; si aggirava tra le banchine arraffando tutti i lavoretti possibili, portabagagli, lustrascarpe, strillone, venditore di qualsiasi cianfrusaglia. Si teneva sulle sue, rifuggiva le amicizie facili, sempre guardingo e sulle difensive nonostante la rilassatezza degli abitanti. Solo, cominciò a frequentare certe bettole malfamate, le uniche in cui non gli venisse chiesto chi fosse o dove fosse diretto. Nel groviglio di stradine strette che si estende fino alla foce del fiume si lasciava trasportare dal richiamo di una voce, da un odore pungente, dai panni stesi ad asciugare alle finestre di una casa, e si fermava poi nei vicoli più angusti, dove la salsedine mista a porto colpiva le narici con violenza.
Fino a quella maledetta sera di ottobre.

Nella penombra fumosa del locale si lasciò andare, restò coinvolto in un brindisi di troppo, ancora non era uso a certi livelli alcolici, agli intrugli di fuoco che servivano in quei luoghi. La testa cominciò a girargli più del solito: un banconiere dallo sguardo torvo, la ragazza che passeggiava tristemente languida tra i tavoli, sporco e odori nauseanti, quell’uomo dal panciotto verde, un vestito a scacchi, la barba incolta di un marinaio forzuto e quella troppo curata di un qualche pezzo grosso capitato nel posto sbagliato. Tutto stonava in quell’ambiente, e con la testa che scoppiava se ne uscì per andarsene a vomitare financo l’anima nella sughereta che lambiva la spiaggia, segnando il confine fra la città e il mare. Il destino aveva guidato i suoi passi tra gli sterpi e i rovi che crescevano incolti alla base di quei tronchi rossicci, nodosi; incespicava ad ogni passo, mentre i conati gli tormentavano le viscere che solo la prospettiva di una zaffata d’aria marina riusciva a tenere a bada. Si gettò carponi sulla battigia, mentre i marosi facevano a gara col suo cervello che rimbombava.
Nell’oscurità rischiarata solo dal firmamento che lo sovrastava, un sottilissimo uncino brillava appeso alle nubi, disperdendo il suo riflesso tra i flutti in mille pagliuzze dorate.

João sentì innanzitutto delle grida sorde, rapide, smozzicate; poi alcuni colpi, cui non fece caso visto il suo stato e la frequenza con cui i marinai battibeccavano tra loro. Ma poi il silenzio si fece disonesto, scorretto, irreale.
Alcune ombre si avvicinavano. Barcollò a nascondersi dietro delle grosse botti, che sulla sabbia contornavano il principio di una pesante passerella d’attracco che si avventurava in mare.
Il respiro gli si fece ansioso, mentre cercava di cacciare la nebbia che gli avvolgeva lo sguardo.
Poi, li vide: due uomini, uno maestoso con l’aria di chi è abituato a comandare, avvolto in una pesante cappa di tessuto damascato; l’altro grezzo, viscido, che buttava tra i flutti quello che sembrava proprio un cadavere. Un semplice tonfo, cerchi concentrici che si espandevano in ondate fin quasi a raggiungere il suo nascondiglio, il mare che accoglieva frettolosamente quel fardello, con ingordigia, richiudendosi su quella vita rubata senza batter ciglio, incurante dei destini umani, e rendendosi complice inconsapevole di un omicidio.
L’alcool sparì come per incanto dai sensi di João, che di colpo lucido cercò di trattenere persino i battiti del suo cuore per non farsi scoprire.
Lo sciabordìo dolcissimo della notte venne nuovamente disturbato dalle voci dei due uomini.
“Non sarà più un problema, signore.”
“Hai fatto un buon lavoro, Ricardo. Ora sparisci!”
João udì distintamente il tintinnio delle monete che il più alto dei due aveva gettato tra le mani del rozzo compagno. Costui si inchinò rispettosamente, poi si dileguò tra i tronchi di sughero secolari.
Il vento gli portò con chiarezza l’eco di un’imprecazione sussurrata: “Non voglio più sentire parlare di te, pezzente; altrimenti giuro che te ne pentirai!”.
Poi il ragazzo vide l’uomo affacciarsi dalla banchina, sulle onde, e sputare con disprezzo nel punto in cui il corpo era stato gettato. La spuma frastagliata accolse questo con più riluttanza, quasi che il mare si fosse offeso per una tale mancanza di umanità.

Curioso di scoprire come finisce il racconto?
Seguici su Searound per la seconda parte della storia!

 

Il Team Editoriale di Searound Magazine vi da il benvenuto.

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